La polemica sulla capacità (o meno) delle imprese della distribuzione dei farmaci di negoziare i prezzi e limitare così i gli aumenti imposti dall’industria farmaceutica ha decisamente preso piede.
Aperta da Nino Faiella, direttore dela catena di parafarmacie Medi-Market, la polemica si centrava sul paragone con le policy adottate nella grande distribuzione, dove, grazie a personale con competenze necessarie dedicate agli acquisti per intere catene di punti vendita, i distributori intervengono nella determinazione del prezzo finale al consumo di numerosi prodotti e brand.
Erika Mallarini, docente alla SDA Bocconi, interpellata dalla stampa specializzata su questo tema, ha rincarato la dose aggiungendo che i distributori hanno anche la facoltà di ridurre i propri margini perché il mercato è liberalizzato dal 2010.
I distributori, dice la professoressa, non fanno acquisti, fanno logistica e non hanno direzioni acquisti organizzate o competenti per affrontare la negoziazione con l’industria.
Questa mancanza di cultura organizzativa riguarda anche i sistemi informativi e le figure specializzate e qualificate nel ramo acquisti.
Il consiglio al comparto è quello di modificare quasi radicalmente il modello di business: non più impegnarsi ad avere tutto per rispondere alle richieste, ma anzi specializzarsi per trattare sui prezzi di acquisto direttamente con i brand produttori.
A queste voci si è aggiunta quella, finalmente in controtendenza, di Luisella Grugni, direttore acquisti di CEF e componente del Comitato tecnico nazionale, la centrale acquisti lanciata da Cef, Farla, Farmacenro e Unifarm.
Le obiezioni, pertinenti e specifiche riguardano in massima parte le tecniche negoziali adottate da questo network e si riverberano soprattutto sulle farmacie affiliate o di proprietà che possono beneficiare di scontistica e premialità negoziata per loro a livello centrale.
Ma questa opinione, indirettamente, dà voce anche al grande mondo delle farmacie indipendenti (circa 19 mila), che gestiscono acquisti e vendite, compresa la determinazione del prezzo entro i limiti di variazione, in maniera del tutto autonoma.
Quello che manca al dibattito però è il punto di vista dei distributori indipendenti, accusati di non avere competenze oltre che di disinteressarsi dell’impatto che gli aumenti avranno sul consumatore finale.
Se è in parte vero che questi “fanno logistica”, nel senso di gestire prevalentemente stoccaggi e trasporti, come sostenuto, è anche vero che fanno acquisti e devono rispondere a logiche che sono del tutto diverse da quelle della grande distribuzione con la quale li si vuole paragonare.
Un esempio quantomai attuale è offerto dalla questione della carenza di farmaci di cui si sta parlando in queste settimane, ai maggiori livelli decisionali del settore.
I prodotti offerti dall’industria farmaceutica non sono fungibili. Lo dimostra il ricorso ai farmaci generici che resta marginale, nonostante le aspettative ai tempi della sua introduzione.
L’infungibilità del prodotto toglie frecce alla faretra di qualunque negoziatore. Non si tratta di mozzarelle o di prodotti da forno, ma di medicinali e questo rende il consumatore particolarmente interessato alla loro reperibilità e soprattutto alla tempestività della distribuzione.
Questo non trascurabile aspetto dell’attività logistica dei distributori del prodotto farmaceutico, li vincola a gestire i rapporti con i produttori avendo meno margini di manovra.
I farmacisti peraltro, che rappresentano i “punti vendita” e sono, come già rilevato, in grandissima parte indipendenti e autonomi, non stanno dalla loro stessa parte, ma spesso si pongono in contrasto.
Hanno infatti la legittima pretesa di trovare assortimento e, appunto, riscontri tempestivi agli ordini, oltre che efficacia nella consegna.
È appena il caso di aggiungere, che i punti vendita di cui si parla non sempre sono nel pieno centro di una grande città o ben distribuiti sulla sua cintura dentro a centri commerciali, ma, molto più di frequente, nell’unica farmacia di un remoto distretto di una piccola provincia.